vide allora aggirarsi fra quelle colonne il truce fantasma di Filippo II, e ne accolse nello spirito creatore il presentimento d'un'opera nuova, cui avrebbe dato, quattro anni dopo, anima e veste musicale, sull'orme della tragedia schilleriana. Dopo la Spagna, ecco il Maestro a Parigi, nell'attesa di inscenare i Vespri all'Opéra. Ma le prove vanno a rilento, per il malvolere dell'orchestra e l'ostilità generale dei Parigini, che delirano per Wagner. Mai come ora il Teatro dell'Opéra si è meritato l'epiteto rossiniano: «la grande boutique».

Impresari, direttore, orchestra, cantanti, tutti sembravano gareggiare nell'intrigo per impedire il trionfale splendore del genio italiano. Wagner se ne compiace e non si perita di aggiungere qualche filo alla subdola trama. Ma Verdi, che ha ormai contro di sé tutta Parigi intellettuale e ufficiale, compreso lo stesso Imperatore, se ne sta appartato in dignitoso riserbo. Alla fine, lascia in asso Parigi, Opéra, Vespri, anche se il direttore intrigante di quel Teatro è stato sostituito. Meglio la campagna e la solitudine di Sant'Agata che non quel covo di consorteria e di malefatte.

Ah, Sant'Agata! La natura serena, la terra che non mente, vecchi cuori fedeli e anche cari morti sotto le zolle fiorite. Né lo commuovono le notizie che alla fine gli giungono dell'ottimo esito dei Vespri all'Opéra e della Traviata al Teatro Italiano.

Verdi bada ai suoi campi, riordina la sua amministrazione e non si cura affatto di musica. Non vuole nemmeno sentirne parlare. Così lascia sospeso anche un contratto che gli viene proposto dal nuovo direttore dell'Opéra parigina per un altro spartito.

Resta tutta l'estate del '63 a Sant'Agata, dedito esclusivamente alla campagna ma non indifferente a qualcosa d'insolito che lievita nel campo musicale e ad uno spirito polemico e novatore che si agita su giornali e riviste, ad opera specialmente di giovani.

Il romanticismo decadeva stemperandosi nei languori lunari; bisognava opporre il vero al fantastico, il sensualismo al sentimentalismo, la violenza alla oziosa pigrizia dei vecchi motivi tradizionali. I poeti sentivano gli influssi di grandi stranieri, romantici о decadenti, come Heine, Hugo, Baudelaire, Byron…

Verdi, intanto, segue con celato interesse le polemiche e comprende come l'arte volga a nuovi fini ed esiga nuovi mezzi. Ora il Maestro è nella piena validità delle forze; ha scritto venticinque opere in venticinque anni; ma l'ultima parola non l'ha ancora detta. Sente il bisogno di perfezionarsi; perciò si dà a rimaneggiare le sue opere meno riuscite.

L'11 di marzo '67 il Don Carlos va in scena a Parigi, presenti la coppia imperiale e un pubblico d'eccezione. L'esito è, in massima, lusinghiero, anche se gli spettatori restano alquanto freddi. La critica discute l'opera, cui tuttavia riconosce novità di forme melodiche e di mezzi armonici, elevatezza di ispirazione e nobiltà di fattura.

Verdi ormai possiede tutto: fama, rendite, onori, eppure non riposa. Superiore al biasimo come alla lode, continua l'ascesa luminosa: mirabile esempio agli artisti di tutti i tempi.

Il 5 febbraio (1887) alla Scala, in una esecuzione stupenda e alla presenza di un pubblico imponente per quantità e qualità, V Otello va in scena, accolto trionfalmente. La critica scopre un Verdi nuovo. La stessa qualifica di «dramma lirico» data all'opera dal musicista e dal poeta, ne esprime la natura.

La grande serata viene chiusa da dimostrazioni acclamanti di popolo dinanzi l'albergo «Milano». Il Maestro è costretto ad affacciarsi al balcone per ringraziare. Rientrato, non nasconde agli intimi che lo circondano un senso di disagio: rimpiange la solitudine di S. Agata, che lui popolava di fantasmi, quando componeva l'opera e viveva in compagnia ideale di Otello e di Desdemona. D'ora innanzi le creature del suo sogno non saranno più sue; andranno per il mondo: e la lieta fortuna che le accompagnerà, non compenserà certo la tristezza dell'abbandono. È fatale, e forse necessario, che i grandi artisti soffrano, e che anche nella gloria vedano il segno di un'esaltazione effimera.