mai da sé saetta

che sì corresse via per l’aere snella,

com’ io vidi una nave piccioletta[114]


venir per l’acqua verso noi in quella[115],

sotto ‘l governo d’un sol galeoto[116],

che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!”.


“Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto”,

disse lo mio segnore, “a questa volta:

più non ci avrai che sol passando il loto”.


Qual è colui che grande inganno ascolta

che li sia fatto, e poi se ne rammarca[117],

fecesi Flegïàs ne l’ira accolta[118].


Lo duca mio discese ne la barca,

e poi mi fece intrare appresso lui;

e sol quand’ io fui dentro parve carca[119].


Tosto che ‘l duca e io nel legno fui,

segando se ne va l’antica prora

de l’acqua più che non suol con altrui.


Mentre noi corravam la morta gora[120],

dinanzi mi si fece un pien di fango,

e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora[121]?”.


E io a lui: “S’i’ vegno[122], non rimango;

ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”.

Rispuose: “Vedi che son un che piango”.


E io a lui: “Con piangere e con lutto,

spirito maladetto[123], ti rimani;

ch’i’ ti conosco, ancor sie[124] lordo tutto”.


Allor distese al legno ambo le mani;

per che[125] ‘l maestro accorto lo sospinse,

dicendo: “Via costà con li altri cani!”.


Lo collo poi con le braccia mi cinse;

basciommi ‘l volto e disse: “Alma sdegnosa,

benedetta colei che ‘n te s’incinse!


Quei fu al mondo persona orgogliosa;

bontà non è che sua memoria fregi:

così s’è l’ombra sua qui furïosa.


Quanti si tegnon or là sù gran regi

che qui staranno come porci in brago,

di sé lasciando orribili dispregi!”.


E io: “Maestro, molto sarei vago[126]

di vederlo attuffare[127] in questa broda[128]

prima che noi uscissimo del lago”.


Ed elli a me: “Avante che la proda

ti si lasci veder, tu sarai sazio:

di tal disïo convien che tu goda”.


Dopo ciò poco vid’ io quello strazio[129]

far di costui a le fangose genti,

che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.


Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;

e ‘l fiorentino spirito bizzarro

in sé medesmo si volvea co’ denti.


Quivi il lasciammo, che più non ne narro;

ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,

per ch’io avante l’occhio intento sbarro.


Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,

s’appressa la città c’ha nome Dite[130],

coi gravi cittadin, col grande stuolo”.


E io: “Maestro, già le sue meschite[131]

là entro certe ne la valle cerno[132],

vermiglie come se di foco uscite


Fossero”. Ed ei mi disse: “Il foco etterno

ch’entro l’affoca le dimostra rosse,

come tu vedi in questo basso inferno”.


Noi pur[133] giugnemmo dentro a l’alte fosse

che vallan quella terra sconsolata:

le mura mi parean che ferro fosse.


Non sanza prima far grande aggirata,

venimmo in parte dove il nocchier forte

“Usciteci[134]”, gridò: “qui è l’intrata[135]”.


Io vidi più di mille[136] in su le porte

da ciel piovuti, che stizzosamente

dicean: “Chi è costui che sanza morte


va per lo regno de la morta gente?”.

E ‘l savio mio maestro fece segno

di voler lor parlar segretamente.


Allor chiusero un poco il gran disdegno

e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada

che sì ardito intrò per questo regno.


Sol si ritorni per la folle strada:

pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,

che li ha’ iscorta[137] sì buia contrada”.


Pensa, lettor, se io mi sconfortai

nel suon de le parole maladette,

ché non credetti ritornarci[138] mai.


“O caro duca mio, che più di sette

volte m’hai sicurtà[139] renduta e tratto

d’alto periglio[140] che ‘ncontra mi stette,


non mi lasciar”, diss’ io, “così disfatto;

e se ‘l passar più oltre ci è negato,

ritroviam l’orm nostre insieme ratto”.


E quel segnor che lì m’avea menato,

mi disse: “Non temer; ché ‘l nostro passo